Migranti di Paolo Verlengia

Uno spettacolo come “Migranti” della Compagnia Atacama propone interessanti spunti per la riflessione, e non già perché dichiari sin dal titolo l’ingaggio di un tema sociale.

Se infatti in teatro quella dell’impegno è una categoria ricorrente, è altrettanto vero che il più delle volte questa ricorrenza finisce per innescare meccanismi retorici piuttosto sterili sul piano artistico e difficilmente soppesabili sul piano della loro utilità.

Il lavoro di Atacama – storica compagnia romana di danza – colpisce subito per la sua immunità organica rispetto ai canoni della retorica, grazie in buona parte all’indipendenza del linguaggio corporeo rispetto a quello della parola. Certo, non necessariamente la creazione verbale e letteraria deve condurre verso una banalizzazione del reale, né si può affermare che la danza sia di per sé garanzia di artisticità pura. Al contrario, ogni linguaggio artistico conosce le sue vette e le sue approssimazioni, ma incontra la propria pienezza solo al termine di un percorso difficile ed articolato, imperlato dalla luce dell’ispirazione ma vagliato ad ogni passo da un’etica che respinge e punisce ogni scorciatoia.

Ecco perché “Migranti” è uno spettacolo da segnalare, al di là del genere di appartenenza, perché supera nella sua pulizia ogni partizione particolare, mostrando su di sé i segni del rigore che ogni artista conosce – o almeno dovrebbe – e che ogni spettatore riconosce. O almeno dovrebbe, verrebbe da ripetere, ma di fronte ad un lavoro come “Migranti” è più difficile ignorare la presenza di una ricerca lungamente macerata, palpabile dietro la scelta di ogni movimento, di ogni piega e di ogni posa. E ben prima della riflessione sul tema della migrazione, è questo magma sensoriale che raggiunge immancabilmente la percezione del pubblico più trasversale, lo stesso pubblico che saprà cadere in visibilio il giorno dopo di fronte a produzioni e prodotti ben più commerciali, ma che di fronte ad una prova di tale intensità e finezza non riuscirà a distrarsi, almeno per lo spazio di una sera.

Eppure, questa goccia esile di solennità che è capace di sgorgare dall’abilità umana rappresenta l’albero isolato della speranza che solo l’arte può alimentare: la lezione del lavoro su di sé, dell’auto-miglioramento come vocazione da attivare in prima persona.

Cosa si trova dunque davanti agli occhi lo spettatore di “Migranti”? La scena scarna, priva di qualunque orpello, non è mai vuota. Le quattro danzatrici tagliano e disegnano lo spazio secondo formule sempre nuove, oppure ripetono iterazioni accattivanti, ed in quei rari momenti in cui non sono presenti in scena in formazione completa ci pensa il disegno luci ad impegnare lo sguardo con colorazioni dalla forte implicazione emozionale. Il blu ed il giallo-rosa si incastrano spesso, ad ispirare l’icona più primaria dell’acqua da cui provengono gli sbarchi e della sabbia su cui approdano perigliosamente. Ma è soprattutto la dialettica di tagli, frontalità e controluce a disporre il susseguirsi dei quadri secondo un incedere di qualità drammaturgica, in cui il colore partecipa come linguaggio tra i linguaggi. Le musiche originali composte da Epsilon Indi rispondono all’appello di questa coralità di segni, dettando i tempi all’azione corporea. Questa si agita e si disfa con continuità circolare, come il moto di una marea, dipingendo la scena con soluzioni dalla pastosità pittorica e dalla consistenza liquida. Il colore diffuso delle luci viene ripreso contrastivamente “a terra” tramite l’uso di costumi che spesso si materializzano quasi magicamente all’interno di movimenti e gesti. I corpi delle danzatrici sanno intersecarsi in un solo organismo, trasformandosi presto in una disperante creatura babelica tentacolare. Sanno disgregarsi, come sabbia al sole. Sanno ricompattarsi, come letto per l’acqua, per trascinarsi e tracimare ancora. Incessanti, illogici, inspiegabili, come il bisogno di libertà.

Paolo Verlengia

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